Due lustri, un periodo di tempo che può sembrare lungo ed, invece, è piuttosto breve almeno per trasformazioni di questo genere. Non ci sono dubbi, la tendenza è negativa e l’Emilia Romagna, così come anche altre regioni di Italia dovrà presto correre ai ripari. Tra il 2000 e il 2010, quindi, secondo il censimento agricolo solo in questa regione del Belpaese, sono state ben 16.000 le aziende che hanno chiuso i vattenti lasciando colture a perdersi e manodopera a casa. Mancano infatti il 40% di aziende frutticole e il 37% di aziende orticole. In pratica ogni 365 giorni, in media sono sparite nella zona ben 1600 aziende ortofrutticole, una tendenza più che pericolosa.
I dati arrivano dalle anticipazioni del censimento agricoltura dell’Istat, che confermano così l’allarme lanciato da Coldiretti sul rischio chiusura delle aziende frutticole. Sette anni e ben quattro crisi, con una situazione così precaria è difficile davvero andare avanti. Le cifre parlano chiaro: le imprese di questo tipo erano 30.603 all’inizio del terzo millennio e sono diventate 18.300 alla fine dell’anno scorso, con un calo del 40,2%.
In più, la superficie coltivata a frutta nello stesso periodo è passata da 86.040 ettari a 67.136, con un calo percentuale del 22%.Vogliamo parlare delle orticole? Il numero delle aziende è diminuito del 37,6% passando dalle 11.650 del 2000 alle 7.265 del 2010, mentre la superficie è passata da 49.172 a 43.920, con un calo del 12%. A commentare quanto sta accedendo, ci ha pensato il presidente di Coldiretti Emilia Romagna, Mauro Tonello il quale ha detto: “E’ proprio per cercare di arrestare la tendenza ad abbandonare queste colture che nelle ultime settimane ci siamo impegnati a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei pubblici amministratori sulla necessità di valorizzare l’ortofrutticoltura italiana. E’ un obiettivo che deve vedere impegnati tutti, compreso il mondo commerciale della grande distribuzione perché la sparizione dell’ortofrutta diventa un impoverimento per tutto il Paese. In particolare per i consumatori significherà pagare di più frutta proveniente da chissà dove e con minori garanzie di sicurezza”.